«Ci ha lasciato più coraggio. E una postura più attenta alla relazione con la conferma - se mai ce ne fosse stato bisogno - dell’importanza delle comunità, fondamentali per dare un po’ di sollievo alle famiglie alle prese con persone tossicodipendenti che, a loro volta, dopo aver vissuto questo tipo di esperienza, sanno che c’è un posto al quale potersi rivolgere, in caso di ricaduta». Roberto Galletti è il coordinatore dell’équipe di educatori della Zolla, comunità di pronta accoglienza per tossicodipendenti con sede a San Savino. Durante il Covid, ha tenuto un “diario della crisi” - poi confluito nel libro “Il patto educativo in situazioni di crisi” (Nep Editore, recentemente presentato alla Libreria del Convegno di Cremona) - in cui ha riportato le osservazioni sul campo di un’esperienza che ha lasciato in tutti un segno indelebile, dunque anche nell’essere educatori. «Ho sentito l’esigenza di ripercorrere quei mesi angoscianti e “bellissimi” - racconta Galletti nel libro - e di analizzare quello che la particolare situazione ci ha fatto apprendere da un punto di vista professionale e umano». Lontani i tempi nei quali al pari di infermieri e medici, anche gli educatori erano stati considerati degli eroi... del resto come scrive il professor Pierpaolo Ascari nell’introduzione, quella dell’educatore è “una di quelle professioni nelle quali si risulta responsabili soltanto degli errori mentre tutto il resto va da sé, come la radice quadrata del nove”.
“La Zolla” nasce nel 1991 come associazione di mutuo auto aiuto formata da un gruppo di genitori - e don Giuseppe Salomoni, tra i primi presidenti -, nel 1996 diventa Centro diurno in seguito sostituito dal centro di Pronta Accoglienza al quale si affianca “La Zolletta”, piccola struttura di tipo residenziale per il trattamento della cronicità. La tipologia di intervento adottata trova fondamento nel “Progetto Uomo”, ideato, applicato e sperimentato in Italia per la prima volta sul finire degli anni ‘70 da don Mario Picchi, nella struttura comunitaria del CEIS di Roma.
Sette gli operatori, la vita all’interno è ben strutturata e scandita da una solida ruotine che si avvale anche della collaborazione fondamentale dei volontari che svolgono un servizio pratico nei vari settori e contemporaneamente sono portatori di una relazione “diversa e informale” con gli ospiti. «La comunità - spiega Galletti - offre una quotidianità non tanto diversa da quello che accade all’esterno. C’è il momento del lavoro, quello del confronto, della socialità, quello in cui bisogna gestire la solitudine e il tempo libero: la peculiarità della comunità è che il tutto avviene in uno spazio protetto, senza la sostanza e con il riscontro e l’osservazione di professionisti».
Il Covid stravolge il solito tran tran. La comunità si deve chiudere ai volontari e qualche operatore si ammala...
«Ci ritroviamo in soli tre operatori, 24 ore al giorno e per tutta la settimana. L’unico modo che avevamo per andare avanti era con l’aiuto degli ospiti, che si svestivano del consueto ruolo per diventare qualcosa di differente. E anche noi chiedevamo loro qualcosa di diverso. Nonostante l’emergenza, volevamo tenere aperta la comunità: “dobbiamo gestirla insieme”, ci siamo detti: un passaggio importantissimo. Ovviamente non così immediato né così franco, però tutto è partito da lì»...
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