Sono passati cinque anni dall’inizio della pandemia da Covid-19: un evento che ha segnato profondamente la sanità, la società e la vita di tante persone. Tra coloro che hanno vissuto l’emergenza sulla propria pelle, gli infermieri sono stati in prima linea, affrontando turni massacranti, reparti sovraffollati e l’incertezza di un virus ancora sconosciuto.
Oggi, ci chiediamo: cosa è rimasto di quell’esperienza? Come ha cambiato la professione e l’approccio al lavoro in ospedale? In questa intervista, Rachele Bini, infermiera da 31 anni e dal 2015 responsabile della gestione delle risorse infermieristiche di supporto al presidio ospedaliero Oglio Po di Casalmaggiore, ci racconta le sue emozioni, le difficoltà affrontate e le cicatrici, visibili e invisibili, lasciate dalla pandemia.
Come ha vissuto l’emergenza sanitaria a lavoro?
«È stata una bomba che ci ha stravolto in pochissime ore, nessuno era pronto. A Cremona però, è successo tutto qualche giorno prima rispetto a noi, perciò abbiamo avuto un momento per riflettere su ciò che stava accadendo, elaborare la situazione e di conseguenza organizzarci. Il clou è durato quasi due anni. A Cremona in poco tempo sono arrivati i soccorsi con i Samaritan’s, qui, invece, sono stati aperti alcuni bandi e abbiamo accolto molti volontari e infermieri provenienti da altre realtà: è stato un vero e proprio lavoro di squadra. Quando sono arrivati i vaccini, la situazione è migliorata, ma, sicuramente, tra turni massacranti e un’organizzazione ancora molto confusionaria, non è stato per niente semplice». (...)
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