“Ti amo da morire” è un ossimoro complesso, fatale. Ed è il titolo di uno spettacolo che la Compagnia dei Piccoli sta portando in scena, con successo, dal 2018. Il testo originale nasce da una domanda: perché? Perché, dunque, in una coppia che condivide casa, letto, tavola, vita... a un certo punto si insinua la violenza? Già... perché? In un anonimo salotto casalingo un lui e una lei come tanti si confrontano cercando di “tenere insieme tante storie, quelle che si sentono in tv, quelle che vorremmo vivere e quelle che invece raccontiamo a noi stessi”. In questo spazio del possibile che è il teatro, si può andare oltre il finale e ricominciare daccapo, con nuovi spunti di riflessione. Questo almeno è l’intento, nella convinzione che su quel palco, come spesso nella vita, si srotolano le vicende di persone comuni, “normali”, non di mostri. Vie spesso lastricate di segnali che, come le mollichine di Pollicino, possono condurre a un punto di non ritorno: è possibile fermarsi prima? E’ possibile, facendosi aiutare, “essere liberi di poter mostrare la rabbia o la paura”? «Lo spettacolo - spiega Mattia Cabrini, sul palco insieme agli attori Alessia Bianchi e Daniele Carrara - non ha la pretesa di dare una risposta univoca e definitiva ma vuole aprire una riflessione rispetto a un fenomeno drammatico, che spesso ci lascia senza parole. Prima di scrivere il testo ci siamo confrontati con i referenti di consultori, Asl, e associazioni quali Aida, fino ad arrivare anche al Centro Cam, il Centro ascolto uomini maltrattanti di Castelleone; il dialogo con questi specialisti ci ha aperto un mondo. Volevamo uscire dalla polarizzazione uomo/donna: di fronte a un episodio di violenza come puoi non empatizzare con la vittima? Però non poteva finire tutto lì, volevamo capire il perché, appunto».
«Al Centro - continua Cabrini - ci hanno spiegato, per esempio, che la cosa più difficile è riuscire a far comprendere a un uomo che ha bisogno di aiuto, spingendolo ad aprirsi: spesso il suo mondo interiore fatto di pensieri, di emozioni e di sentimenti, di frustrazione e rifiuto rimane recluso, bloccato lì, con il rischio, a un certo punto, di esplodere. Una visione alterata della realtà che lo porta a dire “o noi o niente”. Non stiamo parlando di giustificazione, ma di segnali, da non sottovalutare, e della necessità di un dialogo con le proprie emozioni e con il partner».
Ed è qui che, nella prospettiva teatrale, entra in (...).
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