Cremona possiede un tesoro tale da fare invidia ai musei e alle biblioteche di mezzo mondo. Un tesoro talmente prezioso da restare confinato nei forzieri dopo essere stato mostrato, quasi con ritrosia, solo in una fugace mostra nell’inverno del 1989 allestita nell’atrio della Biblioteca Statale. Da allora il tesoro è finito nei depositi da cui non è più riemerso. Ma quale altra biblioteca può vantarsi di possedere una collezione di un’ottantina di acqueforti di Rembrandt, il grande artista di quell’età dell’oro olandese che ha sfornato maestri di scienza, cultura e arti? L’anno scorso al castello sforzesco di Pavia è stata allestita una mostra dal titolo “Rembrandt. Incidere la luce. I capolavori della grafica” poi trasferita a Trento con circa una quarantina di pezzi. Gli esperti dell’inizio del Novecento sostennero che Rembrandt avesse realizzato più di 600 dipinti, quasi 400 incisioni e circa 2.000 disegni. Studiosi di epoca successiva, dagli anni Sessanta ad oggi, non senza discussioni, hanno ridotto il numero delle opere sicuramente a lui attribuibili a 300 dipinti. È probabile che nel corso della sua vita abbia in effetti realizzato più di 2.000 disegni, ma quelli sopravvissuti sono meno di quanto un tempo si fosse ritenuto. Eseguì molti autoritratti, quasi un centinaio tra cui 20 incisioni. Esaminati nell’insieme ci forniscono una visione eccezionalmente chiara dell’artista, del suo aspetto fisico e, più importante, della sua evoluzione psicologica, come ci rivela il volto segnato dagli anni delle ultime opere. L’opera grafica dell’artista olandese è molto importante perchè, come ha sottolineato Luisa Cogliati Arano nella prefazione al catalogo cremonese: “La diffusione del suo messaggio è certo stata affidata più a questi maneggevoli fogli che alle pitture. Chi ha copiato, imitato, ma anche chi semplicemente ha guardato e capito senza intento di imitazione ha percepito la profonda innovazione del linguaggio rembrandtiano. Il senso del relativo, I disegni del momentaneo, che spira da questi fogli, assurge a categoria eterna dell’operare umano che proprio attraverso tanti momenti transeunti costruisce la storia attraverso i secoli. Il costante rapporto dialettico tra l’ombra e la luce, magistralmente indicate con tratti sicuri, ha un’equivalenza solo col ‘pensiero disegnato’ di Leonardo”.
Di questa incredibile collezione Rembrandt è stato redatto un catalogo nel 1989, curato dall’Istituto Centrale per la patologia del libro di Roma con la consulenza di Luisa Cogliati Arano, e l’introduzione del direttore Goffredo Dotti dopo la conclusione del restauro a cui erano state sottoposte le ottanta acqueforti.
Fu l’abate Luigi Bellò a donarle alla Biblioteca statale al momento della morte avvenuta nel 1824, con una raccomandazione: “Lascio la raccolta delle stampe del Rembrandt alla Biblioteca pubblica di questa città pregando che siano conservate diligentemente...».
E così è stato. Molte altre opere della sua collezione andarono invece perdute per volere dello stesso abate, deciso a vendere tutto quanto poteva a beneficio dei poveri. Altre, possedute da lui stesso o donate agli amici, furono distrutte secondo le sue indicazioni poco prima della morte. Restò solo la collezione di stampe di Rembrandt che Bellò decise di legare alla Biblioteca. D’altronde l’amore per l’arte lo aveva spinto a fondare con altri amici artisti una Accademia con sede nel negozio dei fratelli Manini, stampatori e librai cremonesi, secondo la moda del tempo e ad intrecciare di conseguenza rapporti anche con i fratelli Vallardi di Milano a quel tempo, oltre che rinomati editori, anche mercanti di stampe, quadri, disegni e sculture.
Proprio in una lettera inviata ai Vallardi, l’abate cremonese, lamentandosi di non aver ricevuto un quadretto di Gaudenzio Ferrari, chiedeva di essere informato dell’esistenza di eventuali stampe di Rembrandt che fossero capitate nelle loro mani.
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